Il Festival Città delle 100 Scale si colloca nell’ambito della danza contemporanea e delle arti performative. Da cosa nasce la scelta di tale linguaggio?
Nasce da passate esperienze che abbiamo avuto come Associazione Basilicata 1799, poichè il nostro punto di riferimento è sempre stata la città (…) abbiamo organizzato una serie di convegni sulla polis contemporanea, pensando di intervenire in qualche modo sulla e colla città e ciò ci ha portato all’esperienza di Arte in Transito, dove abbiamo chiesto a grandi artisti di prendere in cura pezzi emblematici, simbolici della città, coinvolgendo al tempo stesso tutte le realtà locali legate ad essa in modo espressivo. Tutto questo si è fuso nel proposito di ideare un Festival che rappresentasse la città in modo differente e abbiamo subito pensato alla danza, specialmente quella urbana, una delle declinazioni dei linguaggi contemporanei che al proprio centro hanno il corpo.
Nella presentazione online del sito si descrive il Festival in primo luogo come un’ esperienza attenta ai mutamenti sociali/ esistenziali/ antropologici, ma anche come un continuo work in progress.
Ogni anno caratterizziamo il concept a cui dedichiamo un workshop all’ interno del Festival, che sia anche di preparazione all’ edizione dell’ anno seguente.
Concentrando l’attenzione su tre termini che in qualche modo fossero espressione delle nostre intenzioni, quest’anno abbiamo scelto “gesto”, “tempo” e “trasmutazione”.
A tal proposito ci spiega la scelta di queste tre specifiche linee guida?
Gesto perché abbiamo intrapreso una collaborazione con Virgilio Sieni (..) il gesto come elemento fondante dell’ azione, della performatività, dello spazio, ma anche della possibilità di creare comunità.
Tempo perché esso infonde la sfera esistenziale e oggi è su questo che si gioca la dimensione del futuro. Pensiamo, ad esempio, alle nuove generazioni che sono in una situazione di avarizia del tempo: esse non hanno di fronte a sé un futuro, in una dimensione temporale che sembra caduca, da costruire con grande fatica.
Trasmutazione è la parola su cui lavoriamo in particolare quest’ anno ma soprattutto per la prossima edizione. Rifletteremo su questo anche con la rivista Aut Aut durante il corso del Festival. Trasmutazione significa non solo trasformazione ma anche ibridazione, ovvero la necessità attuale di mettere in discussione vecchie categorie interpretative di noi stessi e della realtà e aprirsi a nuove prospettive. Trasmutazione e in un certo senso, postumanesimo: tutti elementi su cui noi vorremmo riflettere. E cosa, meglio di un festival che si occupa di arti performative, può avere in sé un concept del genere?
Il 15 Novembre il Festival ha ospitato il direttore artistico della Biennale di Danza di Venezia, Virgilio Sieni. Come è nata questa felicissima collaborazione?
Abbiamo ospitato a Potenza la compagnia Virgilio Sieni con “Suites Bach” l’anno scorso, uno fra i suoi lavori più importanti, tanto che sono ormai più di 4 anni che è in giro per il mondo.
È stato immediatamente una sorta di colpo di fulmine, con Virgilio e la sua compagnia abbiamo pensato di rafforzare questo legame e di entrare in un rapporto di co-produzione, più che altro, di essere più dentro al suo discorso.
Per noi sarebbe un sogno, per esempio, avere la possibilità anche in Basilicata di configurare ciò che rappresenta l’Accademia del Gesto. In qualche modo ci stiamo già pensando, affinché tutto questo trovi una sua manifestazione, un suo sviluppo. Tuttavia non è cosa facile.
Quello che sta già accadendo ora è che si sono aperte possibilità per il Festival anche in altre parti della nostra regione e in modo particolare a Matera, dove oggi abbiamo una bella collaborazione con la Sovrintendenza Museale. Sulla base di questi accordi è nata la co-produzione di alcuni quadri del Vangelo Secondo Matteo di Virgilio Sieni. Si tratta di 5 quadri in tutto, messi in scena da persone comuni della Basilicata, presenti, tra l’ altro, alla biennale di Venezia al momento clou della rappresentazione del Vangelo Secondo Matteo.
Se volessimo analizzare la storyline del Festival: Da cosa è partito? oggi, alla sesta edizione a che punto siamo di questa riflessione? E quali sono gli obiettivi che vuole raggiungere?
Dicevamo prima è che il Festival è un work in progress e forse questa è la parte più affascinante del nostro lavoro, della nostra disponibilità, del nostro dono. Perché il valore che diamo a questa cosa non è certamente un valore di carattere economico e non lo sarà mai; noi non facciamo intrattenimento e né, come dire, rassegne: curiamo un progetto dove c’è azione, riflessione, rappresentazione, dove c’è espressività, questo è il punto fondamentale.
(..) Da qui siamo partiti, dalla possibilità di poter esprimere la contemporaneità. Sembra banale ma oggi la contemporaneità è qualcosa di complesso e noi abbiamo cercato di manifestare questa complessità del momento presente attraverso i vari linguaggi della contemporaneità. Il percorso che abbiamo seguito ha chiaramente comportato una sfida rispetto a ciò che può essere considerato in una città e in una regione come la Basilicata “eccessivamente per pochi” oppure “fintamente per pochi”. Non è assolutamente così, perché noi abbiamo la certezza di incontrare delle sensibilità che riguardano in modo particolare i mondi giovanili. Inoltre la capacità di costruire un rapporto continuo con i pubblici, anche se non vorrei definirli in questo modo quanto più comunità che volta per volta si costruiscono intorno al Festival. In calendario il Festival produce eventi ma sono da considerarsi eventi che hanno un senso perché si svolgono all’interno di una comunità, anche se effimera, all’ interno della quale nascono relazioni tra noi, gli eventi che programmiamo e il pubblico che vi partecipa.
Dove vogliamo andare? Beh, il cammino è abbastanza lungo. Chiaramente viviamo in una situazione, a livello generale, di grande crisi che si avverte soprattutto dal punto di vista economico per cui ci dobbiamo ingegnare a come l’ aspetto economico non influisca negativamente sul percorso. Tuttavia, c’ è la necessità di allargare la dimensione del Festival non in termini quantitativi ma piuttosto qualitativi, che abbiano un impatto maggiore rispetto alla nostra regione. Quello che vogliamo cercare di fare è creare delle collaborazioni con realtà molto più formate rispetto a noi e rientrare in modo ancora più stabile all’interno di questo scambio nazionale e se possibile anche internazionale.
Da curatore artistico, quanto contano nella logica progettuale di un festival, il processo e la macchina organizzativa rispetto alla performance finale?
Contano molto ma anche relativamente poco. Le forze in campo non sono tante dal punto di vista numerico, ma alla fine parlano l’ intensità e la qualità. Penso che oggi si giochi tutto sulla credibilità, su quello che si costruisce e si acquisisce volta per volta: questo ti crea una fisionomia. È come nella musica: quando tu hai un sound, quel sound ti caratterizza riconosci, quando lo ascolti, questo o quel cantante, quel gruppo, quel musicista. Io, personalmente, se ascolto due note so che si tratta di Mozart o Beethoven(…) la stessa cosa vale per chi organizza un festival: si cerca di creare quel sound particolare, quello stile, quella modalità, quella qualità che lo caratterizzino e che stabiliscano la sua futura credibilità. E sulla credibilità, penso che oggi si giochi molto.
Il Festival è iniziato ormai da qualche mese e ha visto sulla scena diversi momenti e realtà performative. Possiamo fare un bilancio dal punto di vista del pubblico? Com’è stato accolto?
Esistono varie dimensioni per il pubblico. Alcune delle cose che proponiamo sappiamo che per il momento possono raggiungere solo determinati pubblici e che magari altre manifestazioni raccoglieranno consensi più vasti.
Vorrei portare un esempio: quello del tessere. Noi stiamo costruendo una tela. E come Penelope ci insegna, essa si costruisce ma può essere anche disfatta in alcuni momenti. Noi stiamo cercando di tessere una tela che con il tempo diventi sempre più larga e lo facciamo aprendo dibattiti e riflessioni. Una delle cose che può fare un festival è quella di tessere: tessere relazioni a tutti i livelli, nazionale e internazionale, persino all’interno delle persone. Questo secondo me è l’aspetto più interessante.
Tra i grandi nomi che si sono esibiti per il Festival, ricordiamo Daniele Ninarello, Compagnia La Veronal, Giulio De Leo (Compagnia Menhir), Collettivo Cinetico, Kinkaleri etc..quali sono i criteri alla base della selezione di compagnie e i artisti?
Il nostro interesse è quello di rappresentare una sorta di manifesto che ammetta la complessità di espressione ma non la confusione. Esistono vari e differenti linguaggi, espressioni. Quest’anno, ad esempio, uno degli elementi che stiamo sottolineando ( vedi i Kinkaleri ), è la modalità attraverso cui il linguaggio si costruisce e si decostruisce. Abbiamo anche occhi che ci aiutano a decodificare come le varie espressioni del linguaggio si manifestano all’interno delle arti: per esempio, abbiamo il nostro collaboratore Massimo Carosi della Danza Urbana di Bologna con cui ci confrontiamo in modo particolare per la danza, meno rispetto al teatro che è più di nostra competenza. Abbiamo questi scambi e come sempre da cosa nasce cosa, da conoscenza nasce conoscenza, da interesse nasce interesse. In sostanza, quando si ha un’idea si cerca di rappresentarsela, si va alla ricerca del come e si va anche alla ricerca, non sempre ci si riesce, di qualche cosa che la rappresenti agli altri.
Quali sono i rapporti con le istituzioni cittadine e regionali. Riconoscono il lavoro del Festival? Supportano e contribuiscono alla crescita e distribuzione dello stesso?
Tutti gli organismi, per esempio la APT, in qualche modo ci hanno chiesto di entrare nel proprio catalogo di manifestazioni quali le sagre e la miriade di festival che ci sono in Basilicata. Chiaramente abbiamo una sorta di contribuzione, siamo riconosciuti dal Ministero, da cui riceviamo un finanziamento perché la nostra riflessione è in linea con un certo standard di qualità.
Noi viviamo in una realtà difficile di per sé e ne paghiamo tutte le conseguenze. Non sempre c’ è la giusta valorizzazione e tutto viene omologato dalle istituzioni anche se in linea di massima alcune sono più attente di altre. L’unico problema serio nella nostra Regione, come nella nostra città, che non trova ancora una soluzione, è quello di non permettere un’attenta programmazione. Non si riesce a essere mai sicuri o tranquilli e la progettazione diventa sempre un rischio, molte volte di carattere personale.
C’è un “gesto” che porterà con sé, che ricorderà a lungo, delle performances che si sono succedute fino ad ora?
Un gesto c’è, il primo spettacolo che abbiamo fatto al ponte Musmeci, danza aerea spettacolare della Compagnie Retouramont (Réflexion de Façade). Quello mi ha colpito. Lì realizzavamo qualche cosa di veramente forte. Finalmente riuscivamo a far emergere non solo questo ponte di cui ora tutti parlano, ma un tempo nessuno, salvo qualche sporadico artistoide o cultore delle materie. Abbiamo fatto scoprire a Potenza una cosa che tutti conoscono nel mondo, mentre qui era e parzialmente è ancora oggi lasciato nell’ abbandono più totale. Quel gesto mi/ci ha fatto capire in modo particolare che la cosa era giusta ed era bella. Etica ed estetica in qualche modo si univano e questo era il discorso che noi volevamo fare intorno alla città: trasferire l’esperienza estetica nella dimensione della polis etica. Quel gesto è stato fondante e mi resta ancora davanti, per la sua bellezza scenica ma soprattutto per il suo valore.
Un invito ai lettori a seguire il Festival ed in generale ad andare a teatro…
Ci saranno tanti spettacoli, di gruppi, anche di ragazzi, di una certa consistenza che vivono a Potenza e qui in Basilicata. Per tutti gli altri spettacoli sicuramente troveranno qualche cosa di sensato, qualche cosa che li colpirà, qualche cosa che dischiuderà una visione un po’ diversa delle cose e che farà scattare nella testa qualcosa di nuovo. Si deve avere lo spirito di lasciarsi sorprendere da ciò che si vede. Se si riuscisse volta per volta a staccarsi dall’abitudine e ad aprirsi, il nostro festival potrebbe essere una grande occasione di apertura alla novità.
Photo Courtesy of Salvatore Laurenzana